Si rotolava nel buio Milano, fra calze, mutande e magliette.
Era sempre lì, dentro un cassetto.
Ci sarebbe di che dire sul rapporto che questa città può instaurare con le persone, me inclusa.
Ho camminato per ore, di notte, lungo le sue strade, senza capire perché la sentissi così intimamente lontana, vagamente amata e profondamente odiata. Ho pensato che fosse perché scattare al buio era altro, rispetto al farlo con la luce: dovevi guardare in modo diverso, il tempo si dilatava e si allungava; dal momento in cui premevi il tasto di scatto a quello in cui sapevi di poter muovere liberamente il corpo, passavano istanti che sembravano interminabili.
Dovevi cercare una posizione comoda, respirare e trattenere il fiato il tempo necessario all'immagine per rimanere memorizzata dentro la scheda; guardare la luce ma anche l'oscurità.
In quei giorni uscivo tardi, dopo cena, perché stavo lavorando a qualcosa che richiedeva silenzio, poche persone attorno, vetrine accese ma prive di corpi che si muovevano dietro e davanti ai vetri e, nel gironzolare qua e là, inevitabilmente passavo per luoghi più, o meno noti: il Castello Sforzesco, l'Arco della Pace, City Life, solo per citarne alcuni.
Sono passata e ripassata negli stessi posti più volte perché sapevo che ogni volta sarebbe stato diverso: magari avrebbero acceso altre luci o se ne sarebbero bruciate alcune; avrebbero cambiato l'allestimento di una vetrina o avrebbero spostato un vaso sotto una luce che gli avrebbe dato un altro colore; nello stesso angolo avrei potuto trovare uno scatto che il giorno prima non c'era.
Nel cercare quello che mi serviva, capitava però che divagassi, così, allo stesso modo di Ulisse, mi lasciavo distrarre dal canto delle Sirene, con la differenza che io non ero in grado resistervi e cedevo. Allora scattavo in direzioni sbagliate, a una distanza sbagliata, su soggetti che sapevo non mi sarebbero serviti, scattavo per il puro gusto di lasciarmi andare a quel canto.
In quei momenti l'ho intravista, così intimamente lontana: una signora vestita di luci e buio, che cercava di conquistare il mio sguardo e l'ho accontentata, anche se solo per poco.
"[...]
E anche se la speranza
è fuggita in una notte o in un giorno,
in una qualche visione o nel nulla,
è forse per ciò meno persa?
Tutto quello che vediamo o sembriamo
è solamente un sogno dentro un sogno.
[...]"
(Il Corvo e altre poesie, E. A. Poe)
Immagini nuove
I prossimi calzini spaiati arrivano da un viaggio in Norvegia, un luogo per me magico.
Sono immagini semplici, quasi banali, raccolte volando ad ali spiegate sopra un mondo che ho sempre pensato troppo bello per poter essere rinchiuso in pochi millesimi di secondo. E, in effetti, ogni volta che guardavo il risultato di uno scatto mi risultava insulso rispetto all'immensa bellezza dei paesaggi che mi si aprivano davanti agli occhi, quando erano liberi, non vincolati dall'intermediazione dell'obbiettivo.
Avrei voluto che tutta l'immensità di quei paesaggi finisse dentro i quattro terzi di un'immagine digitale, e non riuscivo a farlo.
Mi resi conto che non era possibile: non potevo riprodurre esattamente ciò che accadeva nell'istante in cui sceglievo di scattare, nemmeno se si trattava di un paesaggio immobile. L'emozione sarebbe sempre rimasta fuori e, in qualsiasi caso, guardando un'immagine avrei sempre pensato che le mancasse qualcosa.
Allora pensai, con un violento moto di stizza: "E cosa me ne faccio della macchina fotografica se non posso fotografare tutto quello che vedo, come lo vedo?"
Lo capii più tardi, quando accettai che non si scattano foto solo per se stessi, ma anche per gli altri; compresi allora che un singolo scatto, nel momento in cui finisce davanti ad occhi diversi da quelli che l'hanno prodotto, non è più parte dell'istante in cui è stato creato, ma viene avvolto da altre emozioni, altri ricordi, da un mondo completamente nuovo che ne modifica profondamente il contenuto.
Il mio blog: "Come calzini spaiati"
date » 06-03-2021
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blog, fotografia, Adda, Monza, paesaggi, storytelling, fiume, Lombardia, Annalisa Melas, bianco e nero,
Una delle cose che sa sicuramente fare la fotografia è portarti via dal luogo in cui ti trovi e farti viaggiare, anche quando non lo puoi fare davvero.
I riflessi a specchio da questo punto di vista offrono molte possibilità, perché ti aprono la porta su almeno tre mondi:
- il mondo concreto, o quello che riconosciamo come tale, che poggia sulla terra, fatto di materia solida e tangibile
- il mondo riflesso, intangibile, che fa pensare a un sotto mondo capovolto nel quale le cose sono diverse e lontane dalla concretezza
- il terzo mondo, quello che nasce se dimentichiamo di essere davanti a un riflesso e guardiamo l’immagine nella sua interezza.
Queste immagini le ho scattate camminando lungo il fiume, mentre costruivo la mia prima storia per immagini, durante un workshop di storytelling seguito a marzo 2017 e sono rimaste orfane; posso dire che loro sono i miei primi calzini fotografici abbandonati, consapevolmente, in un cassetto.